Una tale visione sembra ispirarsi alla prospettiva più generale già delineata dalla “Lumen Gentium” quando, pur riaffermando la piena sussistenza della Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica, riconosce come anche “al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” (LG 8). In quest’ottica la relazione conclusiva sottolinea che “la dottrina dei gradi di comunione, formulata dal Concilio Vaticano II, conferma la visione di un modo articolato di partecipare al Mysterium Ecclesiae da parte dei battezzati” (Relatio post disceptationem 18). Per la comunità cristiana, quindi, anche in ragione della legge della gradualità (cfr Familiaris Consortio, 34) propria della pedagogia divina, si tratta di guardare innanzitutto agli elementi positivi presenti in queste forme imperfette di famiglia, da valorizzare, incoraggiare e sostenere, anche in vista di un possibile cammino di maturazione verso il matrimonio come sacramento.
Non certo per caso sia la relazione introduttiva del Sinodo che quella conclusiva hanno voluto evidenziare come i matrimoni civili, essendo connotati da un vincolo pubblico e, in linea di principio, da affetto profondo, dall’impegno di responsabilità verso la prole, dalla capacità di resistere alle prove, rappresentano un “germe da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio”. Vale anche per questi sposi, infatti, quanto afferma ancora la LG 16: “Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione ad accogliere il Vangelo e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita”.
Non bisogna dimenticare quindi che chiunque, con retta coscienza, si sforza di vivere il vero bene e l’amore autentico, anche senza un’adesione esplicita alla fede, in qualche modo è già sostenuto dalla “grazia divina”. E ciò che costituisce l’essenza di ogni matrimonio è proprio l’impegno a vivere l’amore coniugale, un amore che comporta il coinvolgimento di tutte le componenti della persona, corporeità, istinto, sentimento, affettività, volontà e spiritualità; “esso mira ad una unità profondamente personale, quella che, al di là dell’unione in una sola carne, conduce a non fare che un cuor solo e un’anima sola: esso esige l’indissolubilità e la fedeltà della donazione reciproca definitiva e si apre sulla fecondità” (FC 13). Dunque, anche gli sposi legati da un matrimonio civile o, pur se in misura minore, da un’unione di fatto possono vivere autenticamente il loro impegno all’amore coniugale, santificandosi nella misura della propria rettitudine. La rinnovata attenzione pastorale che il Sinodo auspica per queste situazioni matrimoniali “imperfette”, quindi, dovrà aver cura di riconoscere e coltivare i semi di grazia già presenti in esse, cercando di farne crescere di nuovi. Senza dimenticare, però, che solo col sacramento del matrimonio “l’amore coniugale raggiunge quella pienezza a cui è interiormente ordinato, la carità coniugale, che è il modo proprio e specifico con cui gli sposi partecipano e sono chiamati a vivere la carità stessa di Cristo che si dona sulla Croce” (FC 13).