Che la beatificazione di Paolo VI alla fine del Sinodo straordinario sulla famiglia fosse un messaggio in sé, lo si era capito fin dall’inizio. Adesso c’è anche la conferma. Con pochi ma vigorosi tratti, Papa Francesco ne ha infatti delineato non solo la figura, ma anche la lezione permanente, che vale per la Chiesa del 2000 e soprattutto per il cammino futuro del Sinodo.
Primo elemento “ la profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa”. Dove il possessivo “sua” non è un dettaglio, ma richiama il titolo della prima e programmatica enciclica di Paolo VI, Ecclesiam Suam. La Chiesa non è dei fedeli, dei vescovi e nemmeno del Papa, ma “sua”, cioè di Cristo. E dunque questo amore è sinonimo di servizio, quindi di sofferenza se necessario, offerta affinché “sia chiaro – come scriveva Montini alla fine del Concilio e come il Papa ha ricordato ieri – che Egli (cioè Cristo, ndr), e non altri, la guida e la salva”. Lo ha fatto negli anni turbinosi del dopo Concilio, nessuno può dubitare che lo faccia anche oggi in una temperie che per molti versi assomiglia a quel periodo.
Alla luce di questa verità si deve intendere anche il secondo elemento, cioè il coraggio. “Coraggioso cristiano” è stata una delle definizioni con cui Francesco ha disegnato i contorni della figura del Papa beato. Ma il coraggio di Paolo VI non era temerarietà, sconsideratezza, fuga in avanti. Era invece un “guardare alla realtà di Dio per vivere con i piedi ben piantati per terra e rispondere con coraggio (appunto, ndr) alle sfide”. Non è possibile non cogliere, in queste parole dell’omelia della Messa di beatificazione, il riferimento anche al cammino del Sinodo, alle difficili sfide che è chiamato ad affrontare, alle “ferite” sulle quali la Chiesa deve versare l’olio della misericordia e insieme la medicina della verità. In altri termini è il coraggio di chi – e Montini lo ha fatto pienamente nei suoi quindici anni di pontificato – sa navigare nel mare della storia evitando gli scogli (le “tentazioni” le ha definite Bergoglio) dell’”irrigidimento ostile” da una parte e del “buonismo distruttivo” dall’altra.
Infine e soprattutto la perdurante lezione di Paolo VI si estrinseca nella speranza. Il Papa che i suoi detrattori definirono “mesto” era mosso in realtà dalla grande incrollabile speranza cristiana. Francesco, anche in questo caso ha ripreso e attualizzato questo suo insegnamento e nell’omelia ha suonato più volte questo tasto. Il lascarsi sorprendere da Dio, l’affermazione secondo cui un “cristiano che vive il Vangelo è la novità di Dio nella Chiesa e nel mondo”, l’invito a non cedere al “pessimismo prevalente che ci propone il mondo stesso” vanno proprio in questa direzione. E di fatto indicano la strada alle diocesi, ai vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, ai laici e alle famiglie che da qui all’ottobre del 2015 saranno la nuova immensa Aula sinodale diffusa in tutta la terra. Ecclesia nei cinque continenti. Sua, cioè di Cristo. Secondo la lezione di Paolo VI.
Primo elemento “ la profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa”. Dove il possessivo “sua” non è un dettaglio, ma richiama il titolo della prima e programmatica enciclica di Paolo VI, Ecclesiam Suam. La Chiesa non è dei fedeli, dei vescovi e nemmeno del Papa, ma “sua”, cioè di Cristo. E dunque questo amore è sinonimo di servizio, quindi di sofferenza se necessario, offerta affinché “sia chiaro – come scriveva Montini alla fine del Concilio e come il Papa ha ricordato ieri – che Egli (cioè Cristo, ndr), e non altri, la guida e la salva”. Lo ha fatto negli anni turbinosi del dopo Concilio, nessuno può dubitare che lo faccia anche oggi in una temperie che per molti versi assomiglia a quel periodo.
Alla luce di questa verità si deve intendere anche il secondo elemento, cioè il coraggio. “Coraggioso cristiano” è stata una delle definizioni con cui Francesco ha disegnato i contorni della figura del Papa beato. Ma il coraggio di Paolo VI non era temerarietà, sconsideratezza, fuga in avanti. Era invece un “guardare alla realtà di Dio per vivere con i piedi ben piantati per terra e rispondere con coraggio (appunto, ndr) alle sfide”. Non è possibile non cogliere, in queste parole dell’omelia della Messa di beatificazione, il riferimento anche al cammino del Sinodo, alle difficili sfide che è chiamato ad affrontare, alle “ferite” sulle quali la Chiesa deve versare l’olio della misericordia e insieme la medicina della verità. In altri termini è il coraggio di chi – e Montini lo ha fatto pienamente nei suoi quindici anni di pontificato – sa navigare nel mare della storia evitando gli scogli (le “tentazioni” le ha definite Bergoglio) dell’”irrigidimento ostile” da una parte e del “buonismo distruttivo” dall’altra.
Infine e soprattutto la perdurante lezione di Paolo VI si estrinseca nella speranza. Il Papa che i suoi detrattori definirono “mesto” era mosso in realtà dalla grande incrollabile speranza cristiana. Francesco, anche in questo caso ha ripreso e attualizzato questo suo insegnamento e nell’omelia ha suonato più volte questo tasto. Il lascarsi sorprendere da Dio, l’affermazione secondo cui un “cristiano che vive il Vangelo è la novità di Dio nella Chiesa e nel mondo”, l’invito a non cedere al “pessimismo prevalente che ci propone il mondo stesso” vanno proprio in questa direzione. E di fatto indicano la strada alle diocesi, ai vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, ai laici e alle famiglie che da qui all’ottobre del 2015 saranno la nuova immensa Aula sinodale diffusa in tutta la terra. Ecclesia nei cinque continenti. Sua, cioè di Cristo. Secondo la lezione di Paolo VI.
Mimmo Muolo
19 ottobre 2014