Da Giovedì 28 febbraio Benedetto XVI è papa emerito della Chiesa cattolica. Il fatto, inusuale e inatteso, ha colto tutti di sorpresa. Ma, al di là delle pur comprensibili reazioni emotive, è bene riflettere sulla portata storica e teologica di una decisione così grave. Perché è vero che le dimissioni sono contemplate dal codice, e storicamente ci sono stati altri 6 casi prima di Benedetto XVI. Ma tutti i casi precedenti avevano il carattere dell’urgenza, dell’emergenza. A volte anche drammatica, come nel periodo delle persecuzioni da parte dell’impero romano. Due papi, Clemente Romano e Ponziano, si dimisero perché, incarcerati, non volevano che la loro prigionia compromettesse la libertà della Chiesa. E finirono martiri. Celeberrimo è poi il caso di Celestino V, anche perché la letteratura se ne è impossessata: da Dante e Iacopone da Todi, sino a L’Avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone. Ed anche in quel caso, le circostanze furono drammatiche, nel pieno di uno scontro tra spirituali e conventuali, tra attesa di renovatio e resistenza alla riforma da parte della struttura ecclesiastica.
Ma nel caso di Benedetto XVI manca appunto la drammaticità. La sua decisione non appare ineluttabile, ma presa in totale serenità e libertà. Di questo è consapevole anche lo stesso Ratzinger, che salutando nell’ultima udienza del mercoledì i fedeli, ha così spiegato: «Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi».
Gravità, in primo luogo.
«La gravità della decisione – ha detto papa Ratzinger – è stata proprio anche nel fatto che da quel momento [dell’elezione] in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata». E dunque la decisione non è stata presa a cuor leggero. C’è un sempre e per sempre che non può essere tolto con un colpo di spugna.
Ma anche novità.
Benedetto XVI è ben consapevole di aver in certo senso operato una rottura col passato. Di aver inaugurato una via nuova. Giustamente mons. Calogero Peri ha sottolineato che le dimissioni da un punto di vista ecclesiologico «hanno aperto nuovi orizzonti nella vita della Chiesa». Ne sono prova l’imbarazzo e le esitazioni dei primi giorni sugli appellativi da dare al papa dimissionario. Non semplice questione terminologica o di protocollo. È in gioco infatti la delicata questione del rapporto tra persona e ufficio petrino. Già in passato Joseph Ratzinger aveva fatto capire di propendere per una dialettica tra identità e distinzione. Emblematica la sua Vita di Gesù. Non solo perché pubblicata sotto doppio nome, Ratzinger-Benedetto XVI. Non solo perché l’editrice era la Rizzoli e non la Libreria Editrice Vaticana. Ma anche perché nella prefazione l’autore chiariva al lettore di scrivere come studioso e non come papa, chiedendogli la benevolenza di leggerlo prima di giudicarlo. Nell’udienza del 27 febbraio, Benedetto XVI ha dato un’altra indicazione nel segno della distinzione, ma non separazione tra persona e ufficio. Un segnale eloquente in questa direzione era venuto già prima dal portavoce vaticano P. Lombardi, che aveva chiarito che i titoli del papa dimissionario sarebbero stati: papa emerito, Sommo Pontefice emerito, vescovo di Roma emerito e che avrebbe conservato l’epiteto di Sua Santità e avrebbe vestito la talare bianca e non nera come qualcuno ipotizzava. Segni (e la Chiesa vive di segni) di una continuità pur nella discontinuità.
Benedetto XVI ha spiegato il senso di queste scelte: «Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro». Restare nel recinto di Pietro in modo nuovo ma in continuità col passato. Che non può essere cancellato né azzerato. L’elezione a papa è un punto di non ritorno, sembra dire Ratzinger. Ma forse ci suggerisce anche un esercizio del ministero dell’unità in chiave nuova. Non secondo il principio petrino, del governo, ma secondo quello mariano, del servizio orante. Nella preghiera, nel nascondimento, nella meditazione. Non solo Pietro, ma anche Maria è a fondamento della Chiesa. Con modalità diverse ma convergenti. Più carismatiche e meno istituzionali, come ha ben chiarito Von Balthasar. Anche attorno a Lei si raduna la Chiesa a Pentecoste.
Prospettive ecumeniche.
La novità delle sue dimissioni è densa di implicazioni anche in chiave ecumenica. Già Giovanni Paolo II aveva invitato i teologi a ripensare il primato di Pietro in chiave ecumenica (Ut unun sint). Ora è fuor di dubbio che la riflessione teologica sulle dimissioni di Benedetto XVI apre nuove promettenti strade in questa direzione. D’altro canto, la visione sacrale e monarchica del papato è un portato della Chiesa medievale, rinvigorito dall’ultramontanismo dell’Ottocento. Privato il papa del potere temporale, si è sostituito il papa-re con il papa angelico, etereo, irraggiungibile. La desacralizzazione della figura del papa è iniziata col Concilio ed è frutto della svolta antropologica. Da allora non si è più arrestata, nonostante le nostalgie dei tradizionalisti. Da questo punto di vista, Giovanni Paolo II ha dato un colpo netto all’immagine di un papa ingessato nel proprio ruolo.
Cristo e la Chiesa al centro.
L’ultimo dato teologico è la centratura su Cristo e sul bene della Chiesa. Le dimissioni vanno inquadrate in una visione cristocentrica del papato, ecclesiocentrica non gerarcocentrica, sono state date per il bene primario della Chiesa. Che non è del papa ma di Cristo. Anche quando il Signore sembra dormire, «ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto».
Più volte Benedetto XVI ha insistito, e mercoledì 27 febbraio lo ha ribadito, che la Chiesa che non è «un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti», che ha la sua forza nella Parola di verità del Vangelo.
Di qui l’invito a lasciarsi andare nelle mani di Dio, a «rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano». Parole che sono il degno sigillo a un pontificato vissuto sotto il segno dell’umiltà.
Questo l’ultimo, densissimo, magistero di Benedetto XVI.
Giacomo Belvedere